Era la figlia, bellissima, di Cefeo e Cassiopea, sovrani di Etiopia. Per rimediare alle colpe della madre (Aveva osato definirsi più bella delle Nereidi, scatenando, con ciò, la loro ira. Ed era, in effetti, molto molto bella) è stata condannata a pagarne le conseguenze. Vittima della superbia della madre e sacrificata dal padre per ragioni di stato. Le Nereidi (Ninfe del mare) si rivolsero a Poseidone per scatenare la loro vendetta. Il dio del mare per soddisfare le ninfe inviò sulle coste del regno Etiope un mostro marino, con animo distruttivo. Cefeo e Cassiopea, per calmare il mostro si risolsero di offrire in sacrificio al mostro la loro bellissima figliola Andromeda, che fu portata e incatenata ad uno scoglio.
Andromeda "piange le braccie livide da materne catene, le innocenti mani alle fredde rocce".
Perseo (Figlio di Zeus e Danae), innamorato di Andromeda, dopo aver chiesto la mano ai genitori della fanciulla, a cavallo di un destriero alato (Pegaso) si è lanciato contro il mostro marino che si stava avventando contro la ragazza legata allo scoglio. Lo ha ucciso; ha liberato l'entusiasta ragazza, diventata sua sposa (Non prima di aver superato gli ostacoli (Battaglia durante i festeggiamenti) posti da Fineo, zio della ragazza, suo antico pretendente).
La principessa Andromeda mostra l'animo umano schiavo delle passioni, degli impulsi, legati alla vita sulla terra. La ribellione e l'elevazione l'emancipazione dalla materia, al di sopra di ogni concezione terrena è rappresentata dalla liberazione della ragazza, per mezzo di Perseo, che, seppur figlio di Zeus, incarna la coscienza, l'eroe, che aiuta l'uomo verso la "giusta realizzazione spirituale". Il mostro marino, naturalmente, rappresenta le forze oscure del male che albergano nell'uomo e che spesso prendono il sopravvento sotto l'influenza delle pulsioni incontrollate.
Per volontà degli dei, i componenti della stirpe sono diventati costellazioni: Perseo, Andromeda, Cefeo, Cassiopea, che, spesso, di notte riusciamo ad ammirare nel cielo stellato.
Andromeda, P. G. Dorè
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